LINCOLN (Nebranska) - Virginia Adriano è una delle giovani promesse italiane della pallavolo che sta vivendo un’esperienza tanto affascinante quanto fuori dagli schemi per una giocatrice del nostro Paese.
Nata a Torino nel 2004, opposta di 196 cm con un passato nei club italiani – tra cui Bergamo in Serie A1 e Volley Hermaea Olbia in A2 – Adriano ha fatto una scelta coraggiosa e poco convenzionale: lasciare il professionismo in Italia per trasferirsi negli Stati Uniti e giocare nella NCAA con la maglia dei Nebraska Cornhuskers Volleyball.
All’Università del Nebraska, autentica istituzione del volley femminile collegiale con una tradizione vincente e un seguito di pubblico senza paragoni, ha trovato un ambiente altamente competitivo e culturalmente distante dal volley europeo. La stagione 2025 si è rivelata intensa: Nebraska era tra le grandi favorite al titolo nazionale, ha dominato la Big Ten Conference e ha chiuso la regular season imbattuta, salvo poi essere sorpresa nella fase NCAA da Texas A&M Aggies Volleyball in una partita combattutissima, che ha interrotto in modo inatteso la corsa verso le Final Four.
In questo contesto di crescita personale e sportiva, l’intervista che segue racconta in modo diretto e completo il percorso di Virginia Adriano: l’impatto con le regole NCAA, le differenze con il volley italiano, il peso di una sconfitta arrivata sul filo di lana e il significato profondo di una scelta che unisce sport, studio e vita.

Virginia, come hai vissuto il passaggio dal campionato italiano alla NCAA? "Il passaggio dal campionato italiano a quello NCAA l’ho vissuto in modo particolare, perché all’inizio ho fatto molta fatica. Le regole sono molto diverse, a partire dal fatto che l’opposto in seconda linea tendenzialmente non gioca. Ci sono squadre in cui resta in campo, ma dipende dalle necessità: se, per esempio, non hanno un difensore di livello, oppure se l’opposto è particolarmente determinante anche in seconda linea".
"Nella mia squadra la priorità, visto che la banda da seconda linea con la pipe - Harper - era molto efficace, è stata quella di inserire un difensore in più. Sapevo fin dall’inizio dell’anno che sarei stata tolta dalla seconda linea e che si sarebbe preferito un assetto più difensivo. A me però piace molto attaccare da seconda linea, e sinceramente mi ritengo quasi più efficace da lì che da prima linea".
"Ci sono poi altre regole specifiche: ad esempio, se la palla tocca il soffitto e rimane nel tuo campo, si può continuare a giocare; se invece va nell’altro campo, è punto per gli avversari. A fine del secondo set si va negli spogliatoi per una pausa più lunga e poi si torna in campo per il resto della partita. Anche la palla è diversa: più leggera e veloce in alzata. Io non ero abituata, preferivo un’alzata più morbida, con parabola alta. Qui invece è tutto più rapido, ci sono combinazioni di gioco che in Italia non facevo".
"È stato difficile adattarmi, soprattutto al ritmo dell’alzata e al gioco della palleggiatrice. Quando cambi squadra, devi sempre trovare il ritmo con chi ti alza, ma se resti nello stesso campionato il tipo di gioco è più simile. Qui, invece, è cambiato tutto, e ho dovuto ricostruire completamente i miei tempi".
Quali sono le principali differenze che hai notato tra il volley italiano e quello universitario americano? "Le differenze principali tra la pallavolo in Italia e quella negli Stati Uniti riguardano lo sviluppo della stagione. Il campionato NCAA inizia a metà agosto e finisce a dicembre, con le finali nazionali il 21 dicembre. In Italia, invece, si gioca da ottobre ad aprile, con eventuali play-off. In Italia il campionato prevede andata e ritorno, quindi affronti ogni squadra due volte. Negli Stati Uniti, invece, la stagione si divide in due parti: una prima fase di “pre-season”, che in realtà non sono amichevoli ma partite vere e proprie, e la “conference”, cioè il campionato vero e proprio della tua lega".
"Noi, ad esempio, nella prima parte abbiamo giocato contro Pittsburgh e Stanford, che non sono nella nostra conference, poi contro altre squadre come Lipscomb. Quando inizia la Big Ten, la nostra conference, si gioca generalmente contro ogni squadra una sola volta, perché sono tante. Solo alcune, come Michigan State o Penn State, le affrontiamo due volte: andata e ritorno. Le squadre doppie vengono sorteggiate ogni anno, e alla fine della regular season, in base alla posizione in classifica, si accede direttamente alla post-season. In alternativa, si partecipa al “Selection Show”, dove vengono scelte le 64 squadre che prenderanno parte al torneo nazionale".
"Il torneo è diviso in quattro “bracket” da 16 squadre ciascuno. Noi eravamo “top seed”, insieme a Kentucky, Pittsburgh e Texas. Dopo i vari turni siamo arrivate alla finale regionale contro Texas A&M, che ci ha sconfitto 3-2, 15-13 al tie break".

C’è stato un momento particolare in cui hai capito di esserti ambientata a Nebraska? "Non c’è stato un momento preciso, ma direi quando ho fatto la mia prima conferenza stampa. Lì mi sono sentita più a mio agio, perché avevo iniziato a farmi conoscere non solo in campo, ma anche fuori. All’inizio non ero al massimo, e alcune persone commentavano in modo non proprio carino, ma poi, conoscendomi, hanno cambiato percezione. Ho cominciato a sentirmi parte del gruppo dopo qualche partita. All’inizio mi pesava essere l’unica straniera, più grande delle altre, con una situazione diversa. In teoria ero “freshman” (studente del primo anno, ndr), ma con tre anni a disposizione invece dei quattro canonici, e con ventun anni, mentre le altre ne avevano diciotto.
Come ti sei trovata con le tue compagne di squadra e con lo staff tecnico? "Con lo staff tecnico mi sono trovata benissimo. Sono persone splendide e molto competenti. Dani, la nostra allenatrice, ha uno stile diverso da quello a cui ero abituata. È più empatica, più “materna”. Jalen, il secondo allenatore, è incredibilmente preparato: forse uno dei migliori tecnici che abbia mai avuto. È attento sia all’aspetto umano che tecnico. Poi ci sono i graduate assistants, quattro ragazzi poco più grandi di noi che ci aiutano negli allenamenti".

Hai avuto modo di affrontare partite particolarmente intense? "Sì, direi quella che ha chiuso la nostra stagione. Purtroppo il nostro campionato è stato un campionato perfetto fino alla sfida contro Texas A&M. Eravamo imbattute, avevamo vinto tutti i tie-break giocati e perso pochissimi set. Siamo uscite sconfitte 15-13 al tie-break. È stata una settimana complicata, con infortuni e problemi fisici, ma abbiamo lottato punto su punto. Per due soli palloni siamo rimaste fuori. È stato doloroso, perché credevamo fosse il nostro anno".
"In tutta la stagione siamo andate tre volte al tie-break. La prima contro Kentucky, abbiamo fatto un reverse sweep, eravamo sotto 0-2, un po' come con Texas, ma poi abbiamo recuperato e alla fine abbiamo vinto. Poi con Creighton abbiamo battagliato un po' di più, abbiamo fatto un set a testa più o meno, poi col quinto che anche lì abbiamo vinto. Nella nostra conference poi abbiamo perso soltanto un set contro UCLA perché abbiamo faticato noi, non lo dico con arroganza, ma perché abbiamo giocato male, tutte le altre partite abbiamo vinto tutte a 3-0. Poi la sfida da dentro fuori con contro Texas A&M arrivata dopo una settimana veramente drammatica. Abbiamo faticato tanto, sofferto tanto e perso per due punti. Per due punti non siamo passate alla fase successiva. Una amarezza incredibile perché doveva essere il nostro anno, perché con la stagione che abbiamo fatto...".

L’arena del Nebraska è impressionante. Sono tutti così gli impianti NCAA? "No, non tutti. Il nostro palazzetto verrà ampliato il prossimo anno fino a 10.000 posti, però ci sono alcuni palazzetti che sono nettamente più piccoli, che magari arrivano alla metà. Ce ne sono alcuni che sono anche più grandi, se non erro, tipo UCLA, impianto in cui gioca il basket e anche la maschile di pallavolo. In ogni caso, il livello di organizzazione è pazzesco. Il motto di questa università è 'There's no place like Nebraska', non c'è niente come Nebraska, tutte le partite sono sold out. Nebranska ha il record di 370 partite consecutive sold out e il palazzetto è esaurito fino al 2026. Ovunque giochiamo in trasferta, si battono record di pubblico solo perché arriva Nebraska".
"Abbiamo fatto i record a Indiana, USC, Washington State, Michigan State, New Jersey. Perché? Perché Nebraska va a giocare lì e loro vanno a vedere la partita contro Nebraska, poi perché ci sono tanti nostri fan che vivono in giro per gli Stati Uniti. Un po' quello che succede al Conegliano. Dove va l'Imoco hanno sempre i palazzetti pieni"
“Meglio provare e fallire che non provare e pentirsi”
Fuori dal campo, come stai vivendo la cultura e la vita americana? "La sto vivendo bene. Studio, che era il mio obiettivo principale, e mi trovo molto bene. Non è semplice conciliare tutto, ma è un’esperienza enorme a livello personale." "All’inizio è stata dura," – ammette – "ero in difficoltà, perché non è una di quelle scelte che puoi rimandare. È una decisione che o prendi o lasci. Ho pensato che, se non lo avessi fatto, non mi si sarebbe mai più ripresentata un’occasione così. La scelta difficile è partire, lasciare le abitudini, la famiglia, la comfort zone. Tornare indietro sarebbe stato facile. Ma provarci, mettersi in gioco, quello era davvero il passo coraggioso. E sono contenta di averlo fatto."
Oggi, tra allenamenti, studio e partite, Virginia vive un’esperienza che la sta formando anche fuori dal campo: "Sono fiera di quello che sto vivendo, delle persone che ho conosciuto, di tutto quello che sto imparando. È un percorso che mi sta facendo crescere molto come persona."
Sul piano sportivo, la stagione del Nebraska è stata di altissimo livello: "Uno degli obiettivi era vincere la Big Ten, e ce l’abbiamo fatta. Nella nostra conference non abbiamo perso neanche una partita: siamo rimaste l’unica squadra imbattuta dell’intera NCAA. L’altro obiettivo, quello più grande, era vincere il National Championship, ma purtroppo non ci siamo arrivate. Nonostante tutto, è stato un percorso bellissimo, mi sono divertita moltissimo e spero che il prossimo anno finisca meglio."

“Spero un giorno di meritarmi lo sguardo di Julio Velasco”
Virginia Adriano tra affetto dei tifosi, sogni azzurri e il modello Gabi... "Un messaggio che vorrei mandare ai tifosi, a chi mi segue dall’Italia, è semplicemente un grande grazie," – dice con voce calma ma emozionata Virginia, – "ringrazio infinitamente tutti quelli che mi hanno dato supporto e che ogni tanto mi scrivono per chiedermi come va, o anche solo per dirmi che sono contenti di vedermi felice. Non sono tanti, ma quei pochi messaggi mi riempiono di calore, soprattutto quando arrivano da persone che all’inizio pensavano che la mia fosse una scelta azzardata e oggi mi scrivono ‘hai fatto benissimo’. Quelle parole mi danno forza, motivazione e autostima nel percorso che ho intrapreso."
Poi, inevitabilmente, il pensiero vola alla Nazionale Italiana. "Ci penso tanto, alla Nazionale," ammette. "Anche quando ho deciso di venire negli Stati Uniti, l’ho fatto tenendo conto che questo avrebbe potuto significare rinunciare alla possibilità di essere chiamata. So che lasciare il professionismo e il campionato italiano – che è uno dei migliori, se non il migliore al mondo – per andare al college, sulla carta può essere visto come un passo indietro. È assolutamente comprensibile, ma io questa scelta l’ho presa consapevolmente, sapendo cosa comportava."
La giovane opposta però non si nasconde: "Spero con tutto il cuore di avere un giorno la possibilità di essere messa in gioco. So bene che in Italia ci sono opposti molto più forti di me, e magari anche se fossi rimasta non sarei stata chiamata. Però, chissà, magari un giorno avrò la possibilità di vivere quell’emozione, di meritarmi uno sguardo da parte di Julio Velasco. Sarebbe un sogno."

"Gabi è il tipo di persona e atleta che spero di diventare"
Alla domanda su quale atleta la ispiri, Virginia riflette a lungo prima di rispondere: "Non ho mai avuto un idolo vero e proprio. Ci sono tanti giocatori fortissimi che ammiro, soprattutto maschili, anche se non è il paragone più diretto. A volte alcuni grandi campioni non mi hanno dato bellissime impressioni dal punto di vista umano, anche se tecnicamente sono straordinari. Io invece credo che l’equilibrio tra talento e umiltà sia la cosa più importante."
Poi il nome arriva, chiaro: "Negli ultimi anni ho iniziato ad ammirare molto Gabi Guimarães. L’ho affrontata quando giocavo a Bergamo ed è una giocatrice che incarna tutto quello che ammiro: fortissima in campo, ma incredibilmente gentile e umile fuori. È il tipo di persona e atleta che spero di diventare. Se qualcuno mi dicesse che do quella stessa impressione, che riesco a trasmettere quella serenità e quell’umanità, ne sarei felice. È quello a cui miro ogni giorno."











